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UNDER THE SILVER LAKE: UN INTRICATO FILM DALLE MILLE SFUMATURE

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Under the silver lake è un film del 2019 diretto e scritto da David Robert Mitchell. Uno di quei film da cinema indipendente che solo il regista può capire a fondo e che divide la critica in due, chi lo ama e chi lo odia profondamente.

Questa pellicola è fin da subito particolare e complicata con il protagonista Sam (Andrew Garfield) che rappresenta un po’ un millennial perso nel corso della sua vita, disoccupato che passa le giornate a spiare i vicini. Un ragazzo un po’ sulle sue che sembra essersi buttato via da tempo e che conosce per caso la sua vicina e di cui in una sola sera passata insieme se ne innamora. Lei sparisce all’improvviso e parte cosi una ricerca in una Los Angeles nascosta, strampalata e molto particolare.

Il film mantiene uno stile anni ottanta molto particolare a tratti affascinante con uno stile che ricorda un po’ anche Stanley Kubrick e con diverse citazioni alla cultura Pop, uno neo-noir che ci mostra un ragazzo perso che in qualche modo a paura delle donne, che frequenta feste davvero particolari e chi in qualche modo viene a contatto con l’élite della città. Una storia molto chiusa, ermetica e dalle mille interpretazioni, con una sottilissima linea tra realtà e fantasia.

Under the silver lake si allontana dal cinema classico e dallo spettatore annoiato e si rivolge di più ad un pubblico attento, curioso che ha voglia di esaminare la sua profondità. Facendo così però ci troviamo davanti ad un prodotto davvero complesso, a tratti folle e quindi nel complesso pessimo.

Il film arranca in ogni sua esecuzione e davvero molto confusionario e la giustificazione della sua profondità e del suo messaggio non basta, ha dei lati affascinanti e appare un po’ come un’opera d’arte bella ma talmente difficile da comprendere da ritenerla pessima e incompleta. La definizione migliore è, particolare, perché è certamente qualcosa di raro e che non si vede tutti i giorni ed è lo specchio artistico di chi l’ha creato, che è sempre un elemento positivo.

Questo è uno di quei film che è davvero troppo lontano dal pubblico moderno, e che quindi non sento di consigliare, è una strana e particolare opera artistica che è giusto che uno scopra totalmente casualmente e che si faccia un’idea personale senza essere contagiato da opinioni e consigli altrui.

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NEL NOME DEL CIELO: RECENSIONE MINISERIE, LOTTA TRA FEDE E GIUSTIZIA

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In nome del cielo è una miniserie creata da Dustin Lance Black e basata sul romanzo Under the banner of Heaven: a story of violent faith di Jon Krakauer.

La serie con protagonista Andrew Garfield vede un giovane detective mormone che deve indagare su un violento caso di omicidio, di una donna e di sua figlia, all’interno della comunità religiosa. Fin da subito dovrà confrontarsi con la propria fede che sembra proprio essere al centro di questo caso.

La serie riesce a trattare in modo molto inciso un forte confronto tra fede, fanatismo religioso e giustizia con il protagonista detective che si ritrova in mezzo ad una situazione che fa dubitare il suo credo e vacillare la sua fede. Il lato oscuro della religione, del fanatismo e della sete di potere e di controllo che essa può portare. La serie non si ferma sulla superficie ma ci mostra a fondo la comunità Mormone nelle vicinanze di Salt Lake city, un’indagine che rivela l’aspetto negativo e da setta che può portare la troppa fede.

La presenza di un co-protagonista detective più esperto e di origini Indiane d’America, rende il contrasto ancora più duro e forte con una religione che non accetta estranei e li tratta con un tatto differente, ovviamente è tutto estremizzato, ma è tratto da una storia vera che testimonia quanto la fede si possa trasformare in violenza se usata come strumento di potere e di controllo.

Sicuramente è ben recitata, Andrew Garfield rimane ancora un attore fin troppo sottovalutato anche se sempre di grandissimo talento, difficilmente i dialoghi sono banali, anzi sono una profonda riflessione su una religione e sulla fede, uno sguardo profondo, verso la caratteristica dell’uomo della necessità di avere una bussola e di come essa possa perdere facilmente la direzione.

Un serie che ha fatto discutere perché rappresentazione cruda e fin troppo cinica di una comunità religiosa abbastanza importante in America, però una serie fatta bene, con i giusti toni e con i dialoghi che sono centro importante dell’evolversi della storia con una fotografia che migliora episodio dopo episodio.

Quando una serie o un film trasmettono curiosità, voglia di ricerca, voglia di leggere e di saperne di più, voglia di raccontarle, vuol dire che hanno fatto davvero un buon lavoro. In nome del cielo è così, è incisiva, crea curiosità e ti fa andare oltre alla semplice visione della serie stessa.

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LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE: LA STORIA DI UN EROE DI GUERRA

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La battaglia di Hacksaw Ridge è un film del 2016, candidato a diversi premi Oscar e diretto da Mel Gibson, un film tratto da una storia vera di un eroe di guerra americano.

Il protagonista Andrew Garfield interpreta un giovane soldato americano Desmond Doss che durante la seconda guerra mondiale si arruola nell’esercito come medico, ma che per motivi religiosi si rifiuta categoricamente di usare armi. Il primo Obiettore di Coscienza a ricevere una medagli al valore, un eroe che ha salvato molte vite da morte certa.

Un film di guerra, con una battaglia lunga e ben congeniata a farne da protagonista, Mel Gibson ci immerge nella cruda verità della guerra, in una battaglia, quella di Hacksaw Ridge, combattuta in terra Giapponese. Sangue, mutilati e feriti ovunque con un ragazzo che fa di tutto per salvare più vite possibili. Un film che ci mostra che in guerra non ci sono vincitori, ma solo morte e distruzione, e Desmond Doss è un esempio di integrità morale, devozione e dedizione.

Il film funziona molto bene, la parte introduttiva sottolinea la follia del protagonista di andare in guerra senza armi, ma ci mostra al tempo stesso la sua immensa forza di volontà. La regia non mi ha convinto del tutto in alcuni passaggi, soprattutto nella battaglia, alti e bassi molto soggettivi che possono cambiare un po’ la percezione del film, anche nella sua fotografia, a volte spettacolare a volte un po’ deludente. Un’ottima recitazione di un sempre sottovalutato Andrew Garfield arricchisce un film che si muove bene tra la fede e la violenza, tipico di questo regista.

Scorre bene, la battaglia è chiara nella sua confusione, con immagini nitide anche nelle scene più buie, una buona rappresentazione della guerra e della sua violenza, con una escalation particolare di coraggio e devozione, con un protagonista sempre più eroico e determinato.

Nel complesso un film da Oscar, uno di quei film che ti lascia il segno dopo che l’hai visto.

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TICK, TICK… BOOM! : UN BEL MUSICAL, UN BEL RICORDO

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Tick, tick… BOOM! è un film musical diretto da Lin-Manuel Miranda ed è l’adattamento cinematografico omonimo musical di Jonathan Larson. Un musical che dopo quasi 30 anni passa dal teatro al cinema.

La trama pur essendo un musical degli anni 90′, è tremendamente attuale, infatti c’è un ragazzo sulla soglia dei 30, aspirante compositore che è in crisi di idee e creatività e si rende conto che più passano gli anni, più il suo sogno diventa irrealizzabile.

Un super Andrew Garfield interpreta Jonathan Larson, proprio il giovane compositore che con l’opera Tick, Tick…BOOM! racconta un po’ della sua vita, della paura dei trent’anni, del sentirsi immobile e di non aver concluso nulla nella vita. Osservi gli altri crescere, fare carriera e mettere su famiglia mentre tu ti senti fermo. Una situazione molto comune e familiare a molte persone, ed è estremamente facile immedesimarsi in questa storia. Perché questo musical parla di vita.

Il film si presenta con toni molto seri, ci sono dei picchi di felicità ma è sempre tutto molto spento, dialoghi sono essenziali, brevi ma incisivi. Quando parte la musica tutti si ravviva, ma anche in essa le parole sono parte fondamentale della storia. Non ci sono troppi balli, movimenti, o flashmob esagerati. Tutto è molto pacato, vero e tremendamente attuale nella sua forma, è ambientato all’ingresso degli anni 90′ eppure tutti i discorsi, le dinamiche, i sentimenti, sono tutti attuali, verosimili e importanti.

Recitazione ottima, sceneggiatura di buon livello, forse a tratti un po’ confusionaria e difficile da seguire, il musical in sé è davvero molto carino, serio e con concetti di vita davvero molto importanti, mi sono piaciuti molto i toni di questo film che ha usato la musica come ottimo strumento di narrazione senza esagerare.

C’è una cosa che mi ha colpito davvero un sacco, Jonathan Larson è morto pochi anni dopo aver scritto questo musical e un altro capolavoro come “Rent”, aveva solo 35 anni quando è morto, nel 1996. La trovo una cosa meravigliosa che dopo praticamente 25 anni dalla sua morte, una sua opera possa prendere di nuovo vita in un film, come se lui non fosse mai morto, perché l’arte respirerà sempre, respirerà ancora.