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HOW I MET YOUR FATHER: RECENSIONE PRIMA STAGIONE

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How i met your father è una serie del 2022 creata da Isaac Aptaker e Elizabeth Berger e spin-off della famosa sitcom How i met your mother.

Il compito di questa serie non era facile, avvicinarsi così tanto ad una serie come HIMYM poteva essere un’arma a doppio taglio e i paragoni avrebbero distrutto la nuova serie. Invece questa serie con protagonista Hilary Duff, non entra a gamba tesa sull’originale, ma anzi la rispetta, ne fa a tratti un tributo senza esagerare e usando la prima stagione un po’ come un esperimento. In un periodo che non offre più sitcom di livello, How i met your father è una bella sorpresa. A tratti un po’ forzata nella sua comicità, trova equilibrio in personaggi moderni e che rispecchiano in parte la società attuale.

Lo scopo di questa serie, come in quella originale, non è solo di farci capire come la protagonista abbia conosciuto il padre di suo figlio, ma è un racconto di vita, di dinamiche sociali e di come l’amore sia sempre al centro di tutto. Rispetto alla serie originale, questo spin-off è meno profondo e serve un bellissimo cameo nel finale per riportare una certa profondità e un fortissimo senso di malinconia che serve da slancio alla seconda stagione.

Un buon livello di ironia fa apprezzare i personaggi, che hanno bisogno un po’ del loro tempo per essere apprezzati, all’inizio sembra tutto un po’ forzato e solo più avanti diventa più naturale, forse quella che funziona di più è proprio la protagonista Sophie che in molte sue sfumature ricorda molto Ted Mosby. Il problema della serie è forse il duro e eterno confronto con l’originale e i veri momenti di picco e di interesse sono forse troppo condizionati da personaggi della serie originale. Il bello di HIMYM era la sua capacità di toccare diversi sentimenti ed emozioni e per adesso in questa prima stagione, questa serie non è riuscita ad andare ancora nel profondo, anche se non sono mancate storie profonde nello sfondo.

Nel complesso è una stagione in un certo senso educata e rispettosa del prodotto da cui è nata, un esperimento che fino a d’ora è riuscito e che inizia a camminare con le proprie gambe, con i personaggi che a poco a poco prendono il loro spazio e verso cui si inizia a provare affetto. A differenza dell’originale in questa serie vediamo la protagonista che parla con suo figlio che non vediamo mai in faccia, questo potrebbe essere un modo per deviare le possibilità di chi sia il padre, ma allo stesso tempo potrebbe anche essere un gigantesco indizio su chi potrebbe essere il padre alla fine della serie.

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WILL HUNTING – GENIO RIBELLE: L’ESPRESSIONE CINEMATOGRAFICA DELLA PAROLA

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Will Hunting – Genio Ribelle, in inglese Good Will Hunting è un film di cui ho già parlato in un piccolo elogio, alla bellezza delle parole nel cinema e dell’importanza dei dialoghi in esso. Una perla di insegnamento di sceneggiatura più di un libro di McKee o Syd Field. (Articolo qui)

Will Hunting è un film del 1997 diretto da Gus Van Sant e scritto da due attori ormai famosi come Matt Damon e Ben Affleck, con una sceneggiatura che gli è valsa un Oscar agli esordi della loro carriera.

Il film parla di Will un ragazzo prodigio, con una memoria e una capacità matematica assurde e impareggiabili, un dono che non sta sfruttando, perché arriva dalla parte povera di Boston e perché all’università è solo uno spazzino alla MIT. Viene scoperto il suo talento, ma un famoso matematico non riesce a controllare il carattere ribelle del giovane Will e che quindi richiede l’aiuto di un suo vecchio amico e insegnate di psicologia.

Il film è sorretto da splendidi dialoghi e il confronto tra il genio ribelle di Will, interpretato da Matt Damon e un ormai triste e ferito professore di psicologia con grande talento per i rapporti umani, interpretato da uno strepitoso Robin Williams. Il resto funziona come uno splendido contorno dove ci vengono mostrati diversi aspetti della vita di Will, tra cui un amore intenso appena sbocciato ma che rischia già di finire. A poco a poco il film prende una forma attuale, passano gli anni ma i dialoghi sono applicabili al giorno d’oggi, forse ancora più di allora. La paura del futuro, della perdita, e il confronto costante con il proprio passato. Un amore visto in modo poetico, essenziale e davvero unico. Questo film ha davvero la capacità di conquistarti con le parole e ci mostra un piccolo spezzone di vita, di scelte e di bivi in cui spesso ci dobbiamo confrontare.

Un film che è come una nuvola soffice in cui ci possiamo rilassare, studiare a fondo e capire qualcosa in più sulle infinite sfumature della nostra vita. Non è solo il confronto tra i due personaggi o il talento matematico sprecato, ma è una vera e propria figurina del nostro mondo, di quando si è giovani sognatori impauriti, quando il nemico numero uno siamo noi stessi, le nostre scelte e il voler essere ribelli, ma non con il mondo, quando con la nostra vera essenza. Will fugge dal proprio talento, ma allo stesso tempo lo rincorre, fugge dall’amore, ma allo stesso tempo non desidera altro. Una stretta mortale in cui ci incanala la società che ci circonda, ma noi dobbiamo assaporare la vita in ogni suo attimo, “sentire l’odore della capella Sistina e non solo sapere chi è Michelangelo“. Il concetto è vivere, dare il meglio di sé stessi, offrire non al mondo ma proprio a noi stessi la nostra parte migliore.

Una piccola perla di Cinema, che merita di essere vista e rivista e anche ascoltata. Un Robin Williams che non bisogna mai smettere di elogiare, per le sue interpretazioni pure, vere e bellissime.

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ZLATAN: CALCIO E OCCASIONI PER DIVENTARE UN CAMPIONE

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Zlatan è un film del 2021 diretto da Jens Sjogren, un film di produzione svedese che racconta la storia del calciatore Zlatan Ibrahimovic, icona del calcio degli ultimi 20 anni. Il film è stato liberamente tratto dal libro autobiografico “Io sono Ibra”.

La trama del film ci mostra un giovane Zlatan, le difficoltà dell’integrazione in Svezia e i primi passi nel mondo del calcio, il suo carattere forte e squilibrato, in contrasto con un talento puro e una forza atletica fenomenale. Uno Zlatan bambino, che cresce fino alla firma che ha dato la svolta decisiva alla sua carriera, la firma con la Juventus.

Il mondo dello sport non è solo la partita in sé, ma tutto il mondo che c’è dietro, i sacrifici e la vita dell’atleta. La sua ambizione e sicurezza che lo portano con il tempo a diventare un campione. Ibra è uno di quelli che più è invecchiato e più ha aumentato la sua dose di lavoro, ha messo la testa a posto e a 40 è ancora un super atleta, icona dentro e fuori dal campo. Il film però fa fatica a mostrare con chiarezza questi momenti e nella sovrapposizione di due linee temporali fa un po’ confusione. Sembra troppo fortuita e casuale l’ascesa di Ibra, di cui vengono sottolineati solo gli aspetti negativi e non i sacrifici e il lavoro che ha dovuto fare per essere un campione. Risulta essere un film che parla più di fortuna, di coincidenze che di lavoro, dedizione e ambizione.

Si è vero i dettagli nel mondo dello sport fanno la differenza, Ibra fa un gol meraviglioso con l’Ajax e Moggi fa di tutto per prenderlo e arriva nel 2004, l’ultimo giorno di mercato, da lì esplode e diventa fortissimo, vincendo praticamente sempre lo scudetto. Sembra più un elogio al destino e alla fortuna, che al talento e hai sacrifici che un immigrato ha dovuto fare per diventare campione.

Nel complesso, con tutte le premesse che si possono fare, risulta essere un film un po’ freddo che non trasmette le giuste emozioni, rimane un po’ piatto, non mostrando le vere emozioni del calcio, ma perdendosi forse troppo con Ibra che è un bambino difficili e che ruba le bici. Bello però come ci viene mostrata l’importanza di Mino Raiola nella sua carriera.

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AVATAR LA VIA DELL’ACQUA RIMETTE AL CENTRO DI TUTTO L’IMPORTANZA DELLE IMMAGINI?

QUATTRO CHIACCHIERE: Cos’è più importante nel cinema, l’aspetto visivo o i dialoghi? il nuovo capolavoro di James Cameron sembra darci una risposta.

Si sa il cinema è nato muto, quindi ovviamente le immagini hanno la loro importanza, anzi sono fondamentali, rispetto alle parole che il più delle volte risultano solo inutili e superflue. Il cinema è stato però anche fonte di monologhi meravigliosi, a volte estratti da libri, altri invece semplicemente scritti con maestria dai migliori sceneggiatori o da un autore particolarmente ispirato.

Il bello di questi due elementi non dipendono esattamente l’uno dall’altro, anzi quando uno prevale nettamente ci soddisfa senza troppo bisogno di qualcosa di più, il bello delle parole è che sono semplici, incisive, le immagini, pur se spettacolari, sono meno incisive, più difficili da ricordare con esattezza e necessitano di un immenso lavoro anche in post produzione.

Avatar riporta al centro di tutto l’aspetto visivo, come già fatto da Top Gun questa estate, lo fa in modo clamoroso e attrattivo, quasi a farci dimenticare che il cinema è fatto anche di parole. Un cinema che per avere successo deve essere immediato, dinamico e che non ha molto tempo per soffermarsi sulla profondità. Nonostante c’erano tematiche dense e possibilità di dialoghi importanti, James Cameron gli evita abilmente e punta tutto sulla qualità delle immagini e degli effetti visivi, creando forse il film più immersivo di sempre.

Le parole passano in secondo piano quando un film ha tanto da offrire a livello visivo, la mente è concentrata più sulle immagini che sulle parole. Nel caso di Avatar tutto questo è amplificato, tanto che in alcuni momenti di entrambi i film, non si ha nemmeno la percezione di cose è appena stato detto perché si è rapiti dalla bellezza delle immagini. Così le parole perdono potere e sarebbe quasi del tutto inutile scrivere monologhi di un certo livello.

Così i film diventano azione e non più dialogo, allontanandosi da quella capacità degli anni 90′ di fare film “teatrali”, dove bastavano due attori e un dialogo ben scritto per sostenere un intero film, con scene che vengono postate e replicate ancora oggi, mentre con la bellezza delle immagini che si perde nel tempo e non viene più ricordata. Il dialogo sa viaggiare nel tempo, essere il passato, il presente e il futuro, l’immagine invece rimane intrappolata nel presente con una bellezza che muta, cambia e migliora nel corso degli anni.

Lo stesso Avatar ha fatto passare 13 anni, per migliorarsi visivamente, per portare qualcosa di meglio, evidentemente più spettacolare. Mentre i dialoghi hanno sempre la stessa forza, bellezza e impatto se sono scritti bene. Va data profondità anche a livello umano e il regista insieme all’attore deve essere capace ad esprimerla. Intere serie e film basano la loro intera struttura sul dialogo, lasciando che le immagini siano solo il luogo dove tutto accade e dove si lasciano parole stupendamente incisive.

Questi film così visivi, ci riportano anche un po’ indietro al cinema muto, dove sono solo le immagini a parlare, una qualità video che a volte supera quasi la realtà. Interi mondi che vengono creati digitalmente con una maestria sempre più aggiornata e meravigliosa. Con effetti visivi da lasciarci a bocca aperta. A volte ci basta questo poter sognare con i nostri occhi, commuoverci anche senza aver per forza la necessità di avere un dialogo iconico e che rimarrà nella storia del cinema.

Pensando al cinema moderno la risposta rimane chiara e scontata, la cosa che conta di più in un film è sicuramente l’aspetto visivo, i nostri occhi sono abituati troppo bene ormai e la nostra mente non ha voglia di impegnarsi nella comprensione di dialoghi e parole troppo contorte.

Non solo Avatar ma anche altri film sono la dimostrazione concreta che le immagini sono la forza e il motore del cinema moderno, le uniche che possono regalare una differenza sostanziale tra la sala cinematografica e la nostra Tv di casa. L’importanza delle immagini è fondamentale, e poco importa se ormai le parole sono semplice sfumature in un film fatto di opere d’arte visive.

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MOTHER/ANDROID: FORSE È QUESTIONE DI BUDGET

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Mother/android è un film del 2021 scritto e diretto da Mattson Tomlin, al suo esordio come regista. Un film che sembra un esempio di discussione su come il budget può essere importante se non fondamentale per l’esecuzione di un film.

Questa pellicola si perde in una semplicità quasi noiosa e insensata, cerca di essere introspettivo e profondo, ma rimane piatto e veramente molto debole, sia nei dialoghi che nella sua trama. Questi due ragazzi che vagano in cerca di un posto sicuro in un mondo in cui gli androidi hanno preso il sopravvento in pochi mesi. Lei (Chloe Moretz) è incinta di lui (Algee Smith) cercano di sfuggire all’attacco degli androidi passando dai boschi per arrivare a Boston, città che si è fortificata per resistere agli attacchi.

Un film girato quasi tutto in location povere, nei boschi o in stanze abbandonate senza troppa cura, solo due personaggi principali con una recitazione che stenta a decollare, e che non fa trasparire le giuste emozioni. Un film che cerca di essere profondo ma che anche nei dialoghi non convince e che nel finale presenta qualche buco di trama importante.

Un peccato perché c’erano degli ottimi spunti, ma che non vengono sfruttati a dovere e che forse per un budget debole non ci viene mostrato sostanzialmente nulla, poca azione e poca suspense. Non convince quasi nulla e tutto appare noioso e senza un fine verso la trama. Sembra non partire mai, e il finale è estremamente frettoloso, confuso e distaccato. Le emozioni non escono dallo schermo e l’empatia non esiste perché è impossibile entrare nei panni dei protagonisti, davvero tutto troppo spento e lento.

Nel complesso un pessimo film, che difficilmente posso consigliare, veramente troppo povero di contenuti, peccato perché lo spunto iniziale non era affatto male.