In nome del cielo è una miniserie creata da Dustin Lance Black e basata sul romanzo Under the banner of Heaven: a story of violent faith di Jon Krakauer.
La serie con protagonista Andrew Garfield vede un giovane detective mormone che deve indagare su un violento caso di omicidio, di una donna e di sua figlia, all’interno della comunità religiosa. Fin da subito dovrà confrontarsi con la propria fede che sembra proprio essere al centro di questo caso.
La serie riesce a trattare in modo molto inciso un forte confronto tra fede, fanatismo religioso e giustizia con il protagonista detective che si ritrova in mezzo ad una situazione che fa dubitare il suo credo e vacillare la sua fede. Il lato oscuro della religione, del fanatismo e della sete di potere e di controllo che essa può portare. La serie non si ferma sulla superficie ma ci mostra a fondo la comunità Mormone nelle vicinanze di Salt Lake city, un’indagine che rivela l’aspetto negativo e da setta che può portare la troppa fede.
La presenza di un co-protagonista detective più esperto e di origini Indiane d’America, rende il contrasto ancora più duro e forte con una religione che non accetta estranei e li tratta con un tatto differente, ovviamente è tutto estremizzato, ma è tratto da una storia vera che testimonia quanto la fede si possa trasformare in violenza se usata come strumento di potere e di controllo.
Sicuramente è ben recitata, Andrew Garfield rimane ancora un attore fin troppo sottovalutato anche se sempre di grandissimo talento, difficilmente i dialoghi sono banali, anzi sono una profonda riflessione su una religione e sulla fede, uno sguardo profondo, verso la caratteristica dell’uomo della necessità di avere una bussola e di come essa possa perdere facilmente la direzione.
Un serie che ha fatto discutere perché rappresentazione cruda e fin troppo cinica di una comunità religiosa abbastanza importante in America, però una serie fatta bene, con i giusti toni e con i dialoghi che sono centro importante dell’evolversi della storia con una fotografia che migliora episodio dopo episodio.
Quando una serie o un film trasmettono curiosità, voglia di ricerca, voglia di leggere e di saperne di più, voglia di raccontarle, vuol dire che hanno fatto davvero un buon lavoro. In nome del cielo è così, è incisiva, crea curiosità e ti fa andare oltre alla semplice visione della serie stessa.
QUATTRO CHIACCHIERE: Ieri è uscita su Peacock la nuova serie di Damon Lindelof, creatore di Lost e Leftovers, Mrs. Davis si presenta come una serie tra fede, religione e fanatismo da Intelligenza Artificiale.
Per chi conosce Damon Lindelof, sa come questo autore giochi spesso con il tema della fede e della tecnologia, creando storie serie che si mescolano in misteri, teorie e situazioni in cui in qualche modo la religione entra sempre in gioco.
Il suo stile è abbastanza evidente, e anche in prodotti non originali come Watchmen o in film come World War Z, Cowboys and Alines e Star Treck, questo confronto tra fede e tecnologia c’è sempre. Sicuramente le due serie emblematiche di questo suo stile sono The Leftovers e Lost, dove si va molto in profondità nel concetto di religione, speranza e fede e anche di redenzione.
Mrs. Davis quindi si propone di tutti questi elementi, amplificando anche la sua visione a volte folle e onirica di alcune situazioni, come una ascesa nei cieli della propria anima. Mrs. Davis prende un concetto molto attuale come l’intelligenza artificiale e lo mette in una serie tv dalle diverse sfumature.
Mrs. Davis è una serie ambientata in un futuro non meglio definito, dove ormai l’intera popolazione mondiale o quasi, ha degli auricolari dove ascolta la voce di una IA che li guida nei percorsi e nelle scelte della propria vita, facile che questa situazione si trasforma in una venerazione divina, come una religione. Persone che per fede fanno gesti sconsiderati e che sono completamente devoti a questo Dio digitale. la protagonista della serie è una suora (Betty Gilpin) lontana dal mondo digitale e dalla tecnologia e grande contrapposizione a Mrs. Davis. Essa sarà bersagliata da questo Dio moderno, e dai suoi seguaci e aiutata invece dai non adepti. Come ad esempio un uomo che la accompagnerà nel suo viaggio. La suora si è ripromessa che troverà il sacro Graal e se questo accadrà, l’intelligenza artificiale ha promesso di disattivarsi e lasciare libera l’umanità da questa fanatica fede.
Già dalla trama principale si percepisce un po’ di follia, lo stile di Lindelof che ha sicuramente di creare fin da subito un certo tipo di curiosità, un numero di domande crescenti e una voglia di sapere la soluzione. Questa serie si prospetta moderna e anche in qualche modo attuale, che paragona a suo modo, le antiche e famose religioni, con un fanatismo tecnologico sempre più crescente. Come se l’essere umano non fosse in grado di camminare da solo senza fede. Il fatto che la protagonista vada alla ricerca di un simbolo religioso, significa che non vuole allontanare gli adepti di Mrs. Davis dalla fede, ma vuole dimostrarli che la fede in Dio aveva un fondo di verità e rimetterli sulla retta via.
Mi immagino questo forte contrasto interiore del personaggio che lotta contro una fede, per difendere la sua fede e il suo credo. Da quanto si vede dal trailer, sembra una serie quasi assurda e a tratti trash e cringe, fatta apposta per alimentare dell’assurda verità del mondo moderno, enfatizzata, stilizzata e amplificata in un racconto alquanto particolare.
The Conjuring – per ordine del diavolo è un film del 2021 diretto da Michael Chaves. Il film è il terzo capitolo di una saga che ha rivoluzionato il mondo degli horror. Un terzo capitolo che però fa fatica a trovare una storia interessante.
The Conjuring 3 parte bene con una scena in puro stile horror, ma si perde con facilità nel corso della sua storia e con personaggi e un soggetto di base forse fin troppo fantasioso e che si avvicina troppo agli horror classici. Ci si perde in un mondo di maledizioni e satanismo che sminuisce un po’ la lotta tra i Warren e i demoni vista negli altri precedenti film, tanto che l’oggetto finale maledetto è davvero banale e significativo e da cui difficilmente ci sarà uno spin off come nei precedenti film.
Si sono persi un po’ gli elementi che hanno caratterizzato gli altri film, e questo è un po’ un difetto, una pellicola che lascia impresso ben poco se non qualche scena di paura ben congeniata, ma con una trama che non funziona davvero per nulla e con una confusione sui personaggi davvero costante. Troppe storie intrecciate che finiscono per fare perdere facilmente il filo della trama.
I Warren sono gli assoluti protagonisti, ma manca un po’ il duello tra loro e un demone specifico, e ci si perde in una ricerca di una verità che poi delude facilmente le aspettative. Con un finale con dei colpi di scena che non fanno che complicare la trama e renderla spenta e banale.
A parte i grossi difetti, questa pellicola, se paragonata ai suoi predecessori non funziona, ma se paragonata ad altri film horror, si presenta comunque come un ottimo film con scene davvero ben girate e pensate, una trama contorta ma che offre sempre qualche spunto e un soggetto di partenza che prende sempre in piccola parte dei fatti realmente accaduti. Si dice che verrà prodotta una serie su The Cunjuring e che il quarto capitolo sarà l’ultimo che concluderà una delle milgiori saghe horror di sempre, nonostante qualche calo e qualceh piccolo difetto.
The Last of Us sta per giungere al termine e in questo ottavo episodio i toni thriller si fanno più intensi, mettendo in scena, l’episodio più cinico e violento visto fino ad ora. Magistralmente diretto creando una giusta tensione, con Ellie assoluta protagonista in un dualismo con un ottimo Villain.
Rispetto all’episodio precedente che ci ha fatto fare un tuffo nel brutto passato di Ellie, in questo episodio ritorniamo nel presente, nella gelida America, con Bella Ramsey che dà prova delle sue doti attoriali ed è l’assoluta protagonista. Un dualismo convincente quello tra Ellie e David, un uomo che mischia la fede con mania di potere e di controllo. Non ci sono infetti ma solo un confronto crudo e tosto con uno dei mostri più temibili del pianeta, l’essere umano.
Ellie prende le redini della situazione, e trova un modo per curare Joel che sta ancora molto male, ci mostra tutta la sua forza e determinazione, ma anche le sue paure e fragilità. Incontra degli altri esseri umani, le cui intenzioni sono per lo più misteriose e in bilico tra sopravvivenza e sete di vendetta. Il confronto e crudo e cinico, chiunque lotta per sopravvivere e nel finale vediamo uno sfogo di rabbia e violenza molto intenso, rappresentativo e indicativo di quanto può essere cruda e tosta questa serie.
Si parla per la prima volta di fede in un dialogo molto rilassato tra Ellie e quello che sarà il suo nemico in questo episodio, David, in cui si parla di Dio e di fede e di quanto questa possa in alcune situazioni salvare le persone, la speranza è sempre una parte fondamentale di the last of us. Una lotta continua tra la rassegnazione e la speranza, con attimi di pura e semplice sopravvivenza, se non vuoi essere ucciso devi uccidere.
La scrittura è sempre precisa, i dialoghi sono densi e significativi, sempre un ottimo lavoro di Druckmann e Mazin. L’unico difetto forse, è che arrivati a questo punto, si hanno degli ottimi episodi, alcuni davvero dei piccoli capolavori, ma una storia orizzontale che non convince del tutto e il cui obiettivo di perde un po’ episodio dopo episodio. Sembra non esserci un inizio e una fine specifica e non ci si rende conto in che parte della storia ci troviamo, con solo l’evoluzione dei personaggi a ricordarcelo. Certi eventi non hanno grosse conseguenze sui personaggi che sembrano scordare tutto troppo in fretta.
A parte questo piccolo difetto, dato un po’ dal tema da cui è tratto, la serie sta viaggiando molto bene, con episodi sempre di altissima qualità e sempre molto significativi, anche la recitazione è sempre di alto livello e man mano che va avanti e si appresta ad arrivare al finale della prima stagione, The last of us sembra proprio essere un piccolo capolavoro.
La battaglia di Hacksaw Ridge è un film del 2016, candidato a diversi premi Oscar e diretto da Mel Gibson, un film tratto da una storia vera di un eroe di guerra americano.
Il protagonista Andrew Garfield interpreta un giovane soldato americano Desmond Doss che durante la seconda guerra mondiale si arruola nell’esercito come medico, ma che per motivi religiosi si rifiuta categoricamente di usare armi. Il primo Obiettore di Coscienza a ricevere una medagli al valore, un eroe che ha salvato molte vite da morte certa.
Un film di guerra, con una battaglia lunga e ben congeniata a farne da protagonista, Mel Gibson ci immerge nella cruda verità della guerra, in una battaglia, quella di Hacksaw Ridge, combattuta in terra Giapponese. Sangue, mutilati e feriti ovunque con un ragazzo che fa di tutto per salvare più vite possibili. Un film che ci mostra che in guerra non ci sono vincitori, ma solo morte e distruzione, e Desmond Doss è un esempio di integrità morale, devozione e dedizione.
Il film funziona molto bene, la parte introduttiva sottolinea la follia del protagonista di andare in guerra senza armi, ma ci mostra al tempo stesso la sua immensa forza di volontà. La regia non mi ha convinto del tutto in alcuni passaggi, soprattutto nella battaglia, alti e bassi molto soggettivi che possono cambiare un po’ la percezione del film, anche nella sua fotografia, a volte spettacolare a volte un po’ deludente. Un’ottima recitazione di un sempre sottovalutato Andrew Garfield arricchisce un film che si muove bene tra la fede e la violenza, tipico di questo regista.
Scorre bene, la battaglia è chiara nella sua confusione, con immagini nitide anche nelle scene più buie, una buona rappresentazione della guerra e della sua violenza, con una escalation particolare di coraggio e devozione, con un protagonista sempre più eroico e determinato.
Nel complesso un film da Oscar, uno di quei film che ti lascia il segno dopo che l’hai visto.
QUATTRO CHIACCHIERE: La recensione breve non basta, House of the dragon merita qualche parola in più e qualche piccolo approfondimento
House of the Dragon è una di quelle serie che merita qualche parola in più, molti personaggi e storie che non si possono comprimere in una piccola recensione senza spoiler (QUI). Una serie HBO che mostra il potenziale di questo mondo fantasy e lo amplifica, pronta a riconquistare il cuore dei più delusi.
Il finale della serie originale Game Of Thrones è una ferita aperta ancora per molti fan, infatti questa serie e passata in secondo piano, un po’ anche schiacciata dalla campagna pubblicitaria de “Gli anelli del potere” e un po’ dal fatto che essendo su Sky, non tutti possono vederla. Come già detto nella recensione, questa serie funziona e ha riportato in alto questo splendido universo fantasy creato da Geroge R.R. Martin.
House of the Dragon ci mostra il passato della famiglia Targaryen, più precisamente quasi 190 anni prima della nascita della nostra amata Daenerys, in questa serie ci viene mostrato l’inizio della fine della casata più importante di Westeros, una famiglia che ha regnato per anni e anni su quelle terre, grazie al potere dei Draghi, assoluti dominatori del mondo Fantasy di Game Of Thrones. Il fascino del drago come creatura di fantasia ha sempre funzionato, in questa serie sono un punto importante, e ci mostra in particolare il potere dei Targaryen sulle altri importanti casate del continente. Le famiglie mantengono le caratteristiche già viste nella serie principale, alcune vengono solo nominate altre ci vengono mostrate.
La serie ci mostra due linee temporali ben distinte. Nella prima parte di inizia a raccontare la linea temporale con Viserys (Paddy Considine) primo del suo nome figlio di Baelon ed erede al trono di suo nonno Jaehaerys I, che diventa Re. Viserys si fa notare fin da subito per il suo buon carattere, molto pacifico e cordiale, un uomo che evita la guerra e lo scontro Un re anomalo per il trono di spade.
Fin dalle prime scene e situazioni notiamo una caratteristica dei Targaryen con il re Viserys sposato con sua sorella Alyssa, da cui ha avuto una figlia, Rhaenyra (Milly Alcock nella versione giovane della principessa). In questo modo mantengono il sangue puro e il loro legame con i Draghi e Valyria. Il contrapposto del re è suo fratello Deamon (Matt Smith), un ragazzo molto aggressivo e ribelle che mette sempre in difficoltà il consiglio del re e il suo nome, per i suoi atti di violenza di potere, un ragazzo forte e che ama la battaglia e che non esita a buttarsi nella mischia se serve. Lui come gli altri Targaryen è possessore di un drago.
Questi personaggi principali, nei primi cinque episodi ci mostrano un po’ la situazione di quegli anni, con Viserys ammalato e con il “difetto” di non avere eredi maschi. Questo sarà un punto cruciale della trama e sarà quello che poi farà vacillare il potere sul trono di spade, con più contendenti a Bramarlo. Un semplice trono, che attira sempre l’ambizione di potere delle persone. Con questa serie si ritorna un po’ alle morti un po’ improvvise e inaspettate che ti fanno salire la giusta tensione in ogni momento. I personaggi principali, ai fini della trama, non vengono toccati più di tanto, ma non si sa mai quanto possano rimanere in vita. Bello l’espediente, del re malato, che sembra dover morire da un momento all’altro ma che rimane in vita praticamente tutta la stagione. Nella seconda parte, nei restanti 5 episodi si ha un salto temporale importante con Rhaenyra ormai adulta (Emma d’Arcy) e suo padre sempre più malato, con due nuovi figli maschi avuti dalla sua nuova moglie Alicent Hightower.
Qui iniziano i veri giochi di potere ben iniziati già nelle prime cinque puntate, Rhaenyra viene accusata di avere figli illegittimi, chiaramente non figli di suo marito, mentre gli Hightower grazie alla posizione di Otto, padre di Alicent come primo cavaliere che vogliono prendere sempre più potere, supportati da parte del popolo che non vuole avere una regina ma un re.
In pochi episodi sale la tensione, i figli aumentano, gli eredi pure, ci viene mostrato il lato buono di Rhaenyra, forse la più onesta di tutti, ma anche il suo lato ambizioso e la voglia di diventare la prima Regina Targaryen a salire sul trono. Si sposa con suo figlio Daemon da cui avrà due figli, di sangue puro Targaryen, i suoi primi due figli avranno dei ruoli di potere e il suo primogenito Jacerys sarà l’erede al trono. Questo era il suo programma, ma si ritrova regina di roccia ma nulla di più con il suo fratellastro Aegon II che viene nominato re alle sue spalle, scatenando la guerra che viene chiamata Danza dei draghi. La storia è abbastanza contorta davvero piena di nomi simili tra di loro, ma la serie riesce a mostarci bene questa situazione e a rendere bene l’idea di quello che sta succedendo. Il merito della serie è quello di tenere tutto molto ordinato e non creare troppa confusione, il salto temporale è un po’ spiazzante ma necessario per portare avanti la storia e arrivare al momento dello scontro tra i verdi e i neri, le due fazioni che sostengono regnanti differenti.
Il finale di stagione racchiude un po’ tutto lo stile di Game Of Thrones, con Lucerys, secondo genito di Rhaenyra, che vola dai Baratheon per chiarire la loro posizione riguardo alla guerra che sta per scoppiare e chi riconoscono come Re legittimo, arrivato a destinazione, trova suo zio e rivale di vecchie litigate Aemond Targaryen figlio di Viserys e Alicent e fratello dell’attuale re sul trono di spade. Aemond si appena promesso sposo alla figlia di Baratheon. Lucerys fugge nella tempesta con il suo drago, ma Aemond, da poco padrone di Vaghar, il drago più grande in vita, non riesce a fermarsi e per sbaglio uccide e divora Lucerys, creando così una situazione di sicura guerra tra le due famiglie. Una scena emblematica, perché quella morte sarà l’inizio di molte altre e della distruzione di parte della discendenza Targaryen.
Questo meccanismo funziona alla perfezione per la serie che ci dà indizi su chi vincerà la guerra e da chi discende Daenerys, collegandosi poi alla serie originale, con nomi a noi più famigliari, pur essendo 160 anni indietro, qualche piccolo collegamento c’è.
La morte di Lucerys, anche se molto diversa nella sua esecuzione, ricorda molto la morte di Ned Stark nella prima stagione di Game Of Thrones, una morte che porterà ad un sacco di conseguenze nelle successive stagioni. Riporta al centro il trono, con una battaglia tra draghi mai vista prima, in questa prima stagione c’è solo un accenno ma già si intuisce cosa ci aspetterà nella seconda stagione.
L’inizio della fine di una famiglia che comincia a farsi la lotta con sé stessa, con due incoronazioni, due pretendenti al trono di spade e con fratelli e sorelle pronti a darsi battaglia con i propri draghi, la famiglia Targaryen perderà a poco a poco il suo potere fino ad arrivare al re folle. Questa serie è giusta e equilibrata e ci mostra un’altra interessante storia di questo mondo, con personaggi molto importanti e ben scritti, come lo stesso Re Viserys, suo fratello Daemon e sua figlia Rhaenyra, si passa da un momento pacifico e tranquillo, a una lotta interna che non farà che danneggiare il regno. La prima stagione è un percorso che ci porta all’inizio della battaglia. Una prima stagione perfetta, che introduce un po’ alla violenza e alle morti classiche di questa serie, con lo “slogan” dei Targaryen che diventa ancora più reale, fuoco e fiamme.
Si rivela così la decisione giusta presa da HBO di fare lo spin off su questa storia, che ha una trama interessante e nello stile che il pubblico vuole, con il trono bramato da molti, con guerre e inganni. Una serie che si può anche chiudere in 3 semplici stagioni, ma che dimostra la potenzialità di alcuni spin off, con la paura che possa finire male come la serie originale. Ci sono in progetto altri spin off e si spera che il livello sia questo. Una serie che mi ha riconquistato, non esageratamente bella, ma davvero un’ottima prima stagione.
La cosa che funziona di più nella serie, è la politica, i giochi di potere, sono elementi fondamentali per questo genere, in cui la parte Fantasy e rimarcata dai draghi, ma che nel contesto di per sé sembra solo storia medievale. Game Of Thrones si riconferma dunque, l’universo narrativo ideale per fare serie che possano conquistare il pubblico e avvicinarlo al mondo fantasy. L’assenza di magia, elfi o altro, ci fa sembrare tutto un po’ più realistico e storico, quasi più vicino alla realtà. Il concetto di bene e male non esiste, perché è molto sottile e impercettibile, difficile scegliere una fazione, difficile capire davvero chi fa la scelta giusta. Il popolo passa in secondo piano, proprio come i re ci dimentichiamo quasi che esiste, e ci concentriamo solo sulle famiglie reali, sul loro potere o su chi salirà su quel trono. I draghi rappresentano il fascino del potere, la forza di una famiglia che proprio come detto nella serie, sembrano quasi dei, sicuramente diversi dagli altri esseri umani.
I giochi, gli inganni e gli incesti della famiglia Targaryen, ma anche il loro aspetto un po’ celestiale, ci ricordano un po’ le vicende della mitologia Greca, con questi Dei che fanno giochi di potere e che ogni tanto scendono sulla terra (tra il popolo di approdo del re) per sfogare le loro perversioni sessuali. La fortezza rossa di approda del re, diventa un po’ il monte olimpo con all’interno i loro Dei, che giocano e vogliono sempre più potere. Al popolo non cambia nulla, succedono mille cose a palazzo, ma loro nel concreto vengono solo obbligati ad assistere all’incoronazione di Aegon II, inconsapevoli della guerra civile che incombe.
Proprio come nella politica reale ci si dimentica del proprio popolo e si pensa solo al potere e al poter salire sulla quell Trono (poltrona). House of the Dragon funziona perché prende spunto da molte cose e ci ricorda tante situazioni già viste nella vita reale. Con un’iconica figura di potere e di fantasia come il Drago.
Il Prodigio (The Wonder) è un film del 2022 diretto da Sebastian Lelio e distribuito da Netflix, un film in costume che ripresenta come in molte pellicole, il duello tra scienza e fede, in un’epoca in cui la religione era fondamentale.
La storia si svolge In Irlanda nel 1862, un paese povero e martoriato dall’impero britannico, nelle sue lande desolate, in una piccola fattoria, una bambina si dice sia a digiuno da ben quattro mesi. Una commissione presieduta da religiosi e dottori decide di assumere un’infermiera e una suora che a turno costantemente osserveranno la bambina per testimoniare questo strano prodigio. L’infermiera Elizabeth Wright (Florence Pugh) sarà fin da subito scettica e alla ricerca della verità scientifica della vicenda, ma nel corso dei giorni stringerà un forte rapporto con la bambina prodigio, Anna (Kila Lord Cassidy).
Il film ci mostra diverse sfumature di quell’epoca, la povertà di un paese che vive ancora giorno per giorno e in cui era estremamente facile perdere dei figli per malattia. Vediamo soprattutto la protagonista e la verità che a poco a poco viene a galla. Le persone del luogo che cercano disperatamente un miracolo, qualcosa che gli dia un po’ di speranza e di fede. La povertà e la disperazione li portano ad allontanarsi dalla scienza e a trovare conforto nella fede verso Dio. La bambina diventa fonte di pellegrinaggio, di devozione, per alcuni è già una santa.
Il prodigio è ben strutturato, con una trama fluida e molto chiara, belli i costumi e la cura di alcuni dettagli, c’è la giusta atmosfera e il giusto alone di mistero. La recitazione è di buon livello e la fotografia patinata danno un tono di vecchio e povero al film che lo rendono ancor più realistico. C’è la rottura della quarta parete diverse volte nel film, particolare come scelta, addirittura a inizio film si vede il teatro di posa dove vengono girate le scene degli interni, una scelta bizzarra e che non comprendo del tutto.
Un film che fa riflettere, soprattutto verso il finale dove bisogna confrontarsi fortemente con la fede, con la sua forza e con l’impatto che ha sugli esseri umani, o meglio sulle comunità. La scienza sembra perdere, non essere supportata e anche in questa situazione, le persone sono troppo affascinate dalla possibilità che sia un miracolo e che lei sia un dono di Dio per i fedeli.
Un film che funziona bene nella sua semplicità, pecca un po’ in qualche dialogo, ma la recitazione lo sostiene alla grande, anche nella sua lentezza si fa guardare con facilità e mette la giusta dose di curiosità nello spettatore.
12 Strong è un film del 2018 diretto da Nicolai Fuglsig e tratto dal libro Horse soldiers del giornalista Doug Stanton che ha preso spunto dalla storia vera di un agente della CIA e delle forze speciali, mandato in Afghanistan subito dopo l’attentato alle torri gemelle del 2001.
Nel film seguiamo la storia del capitano Mitch Nelson (Chris Hemsworth) e dei suoi dodici uomini, che da volontari vanno in Afghanistan per attaccare per la prima volta i Talebani e riportare al potere l’alleanza del nord del paese, in modo da evitare, a detta loro, nuovi attentati. Un viaggio che ci mostra come questi 12 soldati siano devoti alla causa e come delle volte in guerra bisogna adattarsi, tanto che devono usare dei cavalli in battaglia.
La storia colpisce proprio per le filosofie dei protagonisti, per il loro modo di pensare e di vedere la guerra, un film che non mostra altro che la pura e semplice guerra, ma che ne analizza le motivazioni, le ideologie delle diverse parti. Ognuno ha le proprie ragioni per combattere questa guerra e che a volte per noi sono inconcepibili. Rimane una storia affascinante, forse un po’ arricchita in favore dei soldati americani, ma nel complesso rende il film piacevole.
Le scene d’azione sono ben eseguite e il ritmo del film e sempre molto alto e coinvolgente, i personaggi sono credibili e scritti molto bene, soprattutto i due protagonisti, tra cui il soldato a capo della rivolta Afghana, contro i talebani. Il film ci mostra la dura realtà di certe situazioni e nonostante tutto il pro guerra che c’è dentro, ci fa anche capire che non esiste vincitore in queste situazioni.
Lo definirei un film che ci mostra le motivazioni che spingono gli uomini a fare certe scelte, motivazioni per noi assurde, ma che rendono il film davvero speciale da questo lato. Per gli amanti del genere penso sia perfetto.
Le strade del male è un film del 2020 diretto da Antonio Campos, questa pellicola è l’adattamento dell’omonimo romanzo scritto da Donald Ray Pollock. Un cast corale davvero di buon livello, con attori come Tom Holland e Robert Pattison, tra gli altri anche Bill Skarsgard, Jason Clarke e Harry Melling.
Il film ha davvero un’ottima fotografia e scenografia, lo si percepisce subito con queste ambientazioni dai toni abbastanza spenti e affascinanti, che trasmettono il giusto senso di angoscia e paura. Ci viene mostrata una zona rurale dell’America in un dopo guerra complicato, con l’avvento di altri conflitti e con la fede in dio che è un misto tra fanatismo e follia. La trama scava nel lato oscuro dell’animo umano e ci mostra scene di violenza differente, spesso spinte e mosse dalla fede per Dio.
La follia alleggia in ogni dinamica narrativa del film, con il bene che sembra essere nascosto dalla forte violenza che ogni personaggio esprime a suo modo. Serial Killer, predicatori che abusano di ragazzine, fanatici religiosi e uomini disperati per amore che pretendono da Dio, ciò che Dio non può dare.
Le strade del male ha una trama abbastanza complicata, con qualche salto temporale in cui è facile perdersi, tanti personaggi e tanti intrecci e una complicata morale a cui è difficile trovare un senso, è destabilizzante, ma riesce a trasmettere le giuste sensazioni di dissenso e compassione. I personaggi sono ben scritti e caratterizzati, ottime le interpretazioni. C’è molta violenza e morte e un alone di intensa tristezza che non lascia mai il film.
Un viaggio nella follia umana, nella sua strampalata natura di trovare risposte a tutto e talvolta di affidarsi completamente a Dio anche nei gesti più violenti, come giustificazione del diavolo che a volte c’è in noi. Tutti i personaggi cercano redenzione e salvezza per i peccati di lussuria e violenza che commettono, con un solo bagliore di purezza nel giovane interpretato da Tom Holland, anch’esso però coinvolto nella violenza.
Nel complesso un film complicato, difficile da comprendere, un film che ha molti intrecci e in cui è facile perdersi, molto profondo strutturato che potrebbe disorientare un po’ lo spettatore. Però un ottimo film, ottima la fotografia e la recitazione, scritto bene e con cura, un film che vale la pena guardare.