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THE MENU: UN FLM DI CUCINA MA SOLO SULLA SUPERFICE

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The Menu è un film del 2022 diretto da Mark Mylod e scritto da Seth Reiss, tra i produttori di spicco c’è pure Adam Mckay regista che spesso fa denunce sociali nei propri film.

Questo film in effetti parla di cucina, ma lo fa solo sulla sua superficie, una superficie davvero ben curata, con piatti realistici e scene che regalano comunque un momento di satira e realismo rispetto a quello che il mondo della cucina al giorno d’oggi, estremizzato e a volte forse fin troppo esagerato. Gli ospiti rappresentano un po’ questo sistema la voglia di sentirsi diversi ed esclusivi, e c’è un bellissimo e forte contrasto tra Margot (Anya Taylor-Joy) e Tyler (Nicholas Hoult), la prima estranea a questo mondo e lontana da questo tipo di lusso e cucina, l’altro invece un fanatico invaghito, quasi a venerare lo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes).

The Menu ci mostra una serie di clienti ricchi che hanno voglia di pagare 1200 dollari a testa per una cena in un ristorante famosissimo collocato su un’isola privata, a poco a poco, portata dopo portata, si rendono conto che non sarà una cena come tutte le altre ma che sta per accadere qualcosa di inaspettato.

Andando a fondo con il film ci rendiamo conto che la parte culinaria è solo un bellissimo contorno e una metafora, il film si presenta più come una denuncia verso un certo tipo di società benestante che mangia e beve sulle spalle degli altri, una classe operaia (i cuochi) che con ritmi e pressioni sempre maggiori non reggono più la propria vita e vogliono concluderla con gesti clamorosi. I ricchi che invece solo alla fine accettano il proprio destino e anche loro in qualche modo accettano questa strampalata e lussuosa cena, dal finale violento e cinico.

Nonostante il film abbia una cura dei dettagli e qualche particolarità davvero interessante, fa un po’ fatica ad essere davvero coinvolgente e lasciare il proprio messaggio, l’esponenziale follia dela situazione e dei cuochi, sembra troppo surreale e ci allontana fin troppo dalla realtà. Questo rene lo spettatore confuso e distaccato, e ti fa considerare “The Menu una cagata pazzesca” Cit.

Il messaggio sulla società, sull’ingordigia, l’egoismo, la pressione sociale, il lusso a volte esagerato e inutile, passa in secondo piano, perché la follia prende troppo il sopravvento, con un finale che si allontana totalmente dalla normalità quindi anche dal pubblico. Ci si aspetta un thriller/horror per certe dinamiche e ci si ritrova invece in una specie di dark Comedy in cui il cibo passa all’improvviso in secondo piano per dà spazio ad una profondità che non è da tutti. The Menu rimane così, come una poesia ermetica, da cui è difficile estrarre la prosa, un film con aspetti creativi davvero interessanti, ma che passano quasi in secondo piano per la sua voglia di esagerare, proprio come il mondo della cucina di cui parla.

Alla fine ci ritroviamo proprio come nel film, ad avere un piatto di pane senza il pane. Un film che aveva ottimi spunti, ma che perde la sua vera essenza, per dar troppo spazio alla metafora.

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THE LAST OF US: RECENSIONE SESTO EPISODIO, UNIONI E DIVISIONI

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The Last Of Us con il suo sesto episodio, ci mostra un nuovo aspetto della vita dopo la pandemia. Un villaggio totalmente autonomo e popolato in cui sembra che il tempo si sia fermato a prima che il fungo infettasse tutto il mondo. I posti isolati sembrano riuscire a sopravvivere con piccole città che vanno avanti con la propria vita. E qui che Joel incontra suo fratello e si confronta con il proprio passato, rendendosi sempre più conto di quanto sia importante per lui Ellie.

Questo è forse l’episodio con la fotografia più entusiasmante, molto naturale, con paesaggi innevati e desolati da togliere il fiato, un episodio chiave per alcuni aspetti ma che stride quasi un po’ per la sua tranquillità, che poi sfocia in un cliffhanger nel finale. La regia rende molto, forse la migliore di tutti gli episodi, c’è una cura dei dettagli sempre maggiore e l’occhio di può perdere in diverse parti dello schermo. Una serie che rimane costante di alto livello e che riesce a regalare anche una certa profondità. Qui la storia di fa meno videoludica e più cinematografica, con un rapporto Joel e Ellie che si stratifica in diverse dinamiche sempre più affettuose.

Si può vedere quanto ormai Joel non abbia altro che Ellie e che la felicità altrui non fa che ferirlo e ricordargli ciò che ha perso, stessa cosa per Ellie che si ritrova a sentirsi persa e sola senza il suo “vecchio custode”. Un episodio che analizza altri aspetti della vita e non solo il confronto con gli infetti. Si accenna al futuro, al ruolo di Ellie come cura e alla possibilità di un mondo nuovo, a livello di speranza, fino a qualche istante prima della fine, è forse l’episodio più positivo, più lontano dalla solita negatività e malinconia che contraddistingue una serie del genere.

The last of us è una serie che rimane sui propri binari, che continua a rimanere fedele al videogioco da cui è tratta e che in ogni episodio si nota una bella scrittura e una bella storia che va avanti. Una piccola perla HBO, forse l’esecuzione e trasposizione migliore di un videogioco. Una serie che rimette in ordine le priorità e la cura del dettaglio e che forse potrebbe essere anche dopo questo sesto episodio, da esempio a future serie di questo genere.

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THE LAST OF US – RECENSIONE QUINTO EPISODIO: ARRIVA LA PROFONDITA’ E IL DOLORE

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The Last Of Us arriva supera la metà del suo percorso e ci mostra un altro aspetto di questo brutto mondo, dominato da infetti e ribelli trasportati dalla disperazione, il quinto episodio è forse l’episodio più intenso ed emotivamente complicato. Il finale estremamente crudo e cinico in contrasto con la serenità di alcuni momenti, ci riporta e ci riapre gli occhi, su un mondo ormai crudele e estremamente violento.

Joel e Ellie fanno crescere il loro rapporto e il confronto con due ragazzini non fa altro che ricordare a Joel i bei momenti del passato. Si nota la netta divisione tra il mondo che era e il mondo in cui si trovano adesso, lui lo sa e riesce a mantenere sempre il giusto livello di attenzione e non abbassare mai la guardia. Un episodio pieno di scene molto intense e di morti che lasciano sicuramente il segno tanto da sorprende anche chi la storia la conosce già. A livello di regia forse il miglior episodio fino a qui, con scene davvero ben coordinate ed effetto, giusto livello di tensione e anche un po’ di paura. Il finale è crudele e estremamente intenso e significativo, riportandoci tutti in questo incubo che è il mondo di The Last Of Us.

La speranza viene cancellata scena dopo scena e a vincere purtroppo alla fine di tutto, sembra essere sempre e solo il fungo e la malattia, Joel sembra rassegnato ma non vuol perdere per alcun motivo al mondo quella che ormai e come se fosse sua figlia. Ellie conserva in sé la speranza che lei possa essere il cambiamento, che lei possa essere la cura per risolvere tutti i problemi del mondo. Il finale ci mostra in una scena mille sfumature del suo personaggio, una bambina che inizia a sentire su di sé, una responsabilità enorme.

The Last of Us non è una semplice passeggiata in un mondo post apocalittico, ma una storia cruda lontana dalle favole dal lieto fine, si sopravvive e ogni giorno può accadere qualcosa di terribile. Episodio scritto sempre molto bene, anche la recitazione sta salendo di livello e come detto prima la regia sembra essere la migliore vista fino a qui, una serie che si evolve, che prende confidenza e che non risparmia la sua crudeltà.

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WILL HUNTING – GENIO RIBELLE: L’ESPRESSIONE CINEMATOGRAFICA DELLA PAROLA

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Will Hunting – Genio Ribelle, in inglese Good Will Hunting è un film di cui ho già parlato in un piccolo elogio, alla bellezza delle parole nel cinema e dell’importanza dei dialoghi in esso. Una perla di insegnamento di sceneggiatura più di un libro di McKee o Syd Field. (Articolo qui)

Will Hunting è un film del 1997 diretto da Gus Van Sant e scritto da due attori ormai famosi come Matt Damon e Ben Affleck, con una sceneggiatura che gli è valsa un Oscar agli esordi della loro carriera.

Il film parla di Will un ragazzo prodigio, con una memoria e una capacità matematica assurde e impareggiabili, un dono che non sta sfruttando, perché arriva dalla parte povera di Boston e perché all’università è solo uno spazzino alla MIT. Viene scoperto il suo talento, ma un famoso matematico non riesce a controllare il carattere ribelle del giovane Will e che quindi richiede l’aiuto di un suo vecchio amico e insegnate di psicologia.

Il film è sorretto da splendidi dialoghi e il confronto tra il genio ribelle di Will, interpretato da Matt Damon e un ormai triste e ferito professore di psicologia con grande talento per i rapporti umani, interpretato da uno strepitoso Robin Williams. Il resto funziona come uno splendido contorno dove ci vengono mostrati diversi aspetti della vita di Will, tra cui un amore intenso appena sbocciato ma che rischia già di finire. A poco a poco il film prende una forma attuale, passano gli anni ma i dialoghi sono applicabili al giorno d’oggi, forse ancora più di allora. La paura del futuro, della perdita, e il confronto costante con il proprio passato. Un amore visto in modo poetico, essenziale e davvero unico. Questo film ha davvero la capacità di conquistarti con le parole e ci mostra un piccolo spezzone di vita, di scelte e di bivi in cui spesso ci dobbiamo confrontare.

Un film che è come una nuvola soffice in cui ci possiamo rilassare, studiare a fondo e capire qualcosa in più sulle infinite sfumature della nostra vita. Non è solo il confronto tra i due personaggi o il talento matematico sprecato, ma è una vera e propria figurina del nostro mondo, di quando si è giovani sognatori impauriti, quando il nemico numero uno siamo noi stessi, le nostre scelte e il voler essere ribelli, ma non con il mondo, quando con la nostra vera essenza. Will fugge dal proprio talento, ma allo stesso tempo lo rincorre, fugge dall’amore, ma allo stesso tempo non desidera altro. Una stretta mortale in cui ci incanala la società che ci circonda, ma noi dobbiamo assaporare la vita in ogni suo attimo, “sentire l’odore della capella Sistina e non solo sapere chi è Michelangelo“. Il concetto è vivere, dare il meglio di sé stessi, offrire non al mondo ma proprio a noi stessi la nostra parte migliore.

Una piccola perla di Cinema, che merita di essere vista e rivista e anche ascoltata. Un Robin Williams che non bisogna mai smettere di elogiare, per le sue interpretazioni pure, vere e bellissime.

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IL PRODIGIO: IL DUELLO TRA SCIENZA E FEDE

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Il Prodigio (The Wonder) è un film del 2022 diretto da Sebastian Lelio e distribuito da Netflix, un film in costume che ripresenta come in molte pellicole, il duello tra scienza e fede, in un’epoca in cui la religione era fondamentale.

La storia si svolge In Irlanda nel 1862, un paese povero e martoriato dall’impero britannico, nelle sue lande desolate, in una piccola fattoria, una bambina si dice sia a digiuno da ben quattro mesi. Una commissione presieduta da religiosi e dottori decide di assumere un’infermiera e una suora che a turno costantemente osserveranno la bambina per testimoniare questo strano prodigio. L’infermiera Elizabeth Wright (Florence Pugh) sarà fin da subito scettica e alla ricerca della verità scientifica della vicenda, ma nel corso dei giorni stringerà un forte rapporto con la bambina prodigio, Anna (Kila Lord Cassidy).

Il film ci mostra diverse sfumature di quell’epoca, la povertà di un paese che vive ancora giorno per giorno e in cui era estremamente facile perdere dei figli per malattia. Vediamo soprattutto la protagonista e la verità che a poco a poco viene a galla. Le persone del luogo che cercano disperatamente un miracolo, qualcosa che gli dia un po’ di speranza e di fede. La povertà e la disperazione li portano ad allontanarsi dalla scienza e a trovare conforto nella fede verso Dio. La bambina diventa fonte di pellegrinaggio, di devozione, per alcuni è già una santa.

Il prodigio è ben strutturato, con una trama fluida e molto chiara, belli i costumi e la cura di alcuni dettagli, c’è la giusta atmosfera e il giusto alone di mistero. La recitazione è di buon livello e la fotografia patinata danno un tono di vecchio e povero al film che lo rendono ancor più realistico. C’è la rottura della quarta parete diverse volte nel film, particolare come scelta, addirittura a inizio film si vede il teatro di posa dove vengono girate le scene degli interni, una scelta bizzarra e che non comprendo del tutto.

Un film che fa riflettere, soprattutto verso il finale dove bisogna confrontarsi fortemente con la fede, con la sua forza e con l’impatto che ha sugli esseri umani, o meglio sulle comunità. La scienza sembra perdere, non essere supportata e anche in questa situazione, le persone sono troppo affascinate dalla possibilità che sia un miracolo e che lei sia un dono di Dio per i fedeli.

Un film che funziona bene nella sua semplicità, pecca un po’ in qualche dialogo, ma la recitazione lo sostiene alla grande, anche nella sua lentezza si fa guardare con facilità e mette la giusta dose di curiosità nello spettatore.

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MERCOLEDI’: RECENSIONE DELLA PRIMA STAGIONE

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Mercoledì è una serie distribuita da Netflix, creata da Alfred Gough e Miles Millar ispirata ai personaggi della famiglia Addams. Tra i registi della serie c’è il tocco d’arte del famoso Tim Burton. Questa serie nello specifico si focalizza sulla vita di Mercoledì la bambina tenebrosa della famiglia Addams ed è interpretata da una strepitosa Jenna Ortega.

Mercoledì è una serie che riesce a mettere insieme diversi elementi e che mescola a perfezione l’ironia e macabro, proprio nel perfetto stile Addams, la famiglia più strampalata del cinema ha sempre avuto un grande potenziale e qui viene sfruttato a pieno. La storia ci mostra la vita di Mercoledì che viene spedita in una scuola per reietti, insieme a vampiri, licantropi, sirene e ogni tipo di strano mostro. La scuola è legata al suo passato essendo stata frequentata dai suoi genitori Morticia e Gomez Addams, interpretati da Kathrine Zeta Jones e Luis Guzman. Degli strani casi di omicidio che sembrano coinvolgere la scuola, aiutano paradossalmente Mercoledì a convincersi di rimanere e fare qualche forzata amicizia.

Questo mix di generi funziona decisamente bene ed è tutto fatto in toni abbastanza leggeri e divertenti, il personaggio della giovane Mercoledì è estremamente iconico e anche qui Netflix riesce a metterci un po’ di Teen Drama, ma questa volta lo fa con la giusta dose per dare un tocco in più alla trama. La scena del ballo sta spopolando su internet ed è davvero super azzeccata ed è anche una bellissima citazione della serie sulla famiglia Addams degli anni 60′. I paragoni con il passato non possono mancare, ma questa serie è differente, più moderna, profonda e cerca di dare molto spessore alla protagonista, con la sua eterna apatia e gli occhi sempre aperti che creano inquietudine.

Tutti gli elementi chiave della famiglia Addams sono ben utilizzati e amplificati al meglio, sfruttati per rendere questa serie davvero bella e ben fatta che sta conquistando un po’ tutti, addirittura una Mano riesce a trasmettere qualcosa, io l’ho trovata una cosa davvero meravigliosa. La mano di Tim Burton si vede ma è meno incisiva del solito, ma da un giusto tocco che rimane un po’ per tutta la serie, ci sono delle piccole chicche di fotografia, davvero interessanti, la stanza divisa in due tra oscurità e colori è molto emblematica. Bellissime le canzoni all’interno della serie, unico difetto forse rimane quello di un finale un po’ troppo frettoloso e ripetitivo e qualche colpo di scena un po’ troppo forzato per i miei gusti, non è giusto sviare troppo lo spettatore con cose che non hanno poi senso di essere state mostrate.

Jenna Ortega è la vera protagonista del momento, la sua Mercoledì è perfetta, trasmette le giuste sensazioni e sa essere al tempo stesso tenebrosa e attrattiva. Come una calamita che ti attrae e rispinge a seconda di com’è girata. La verità che tutti pendono dalle labbra di Mercoledì, sia i personaggi della serie che il pubblico.

Consigliatissima!

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WAKANDA FOREVER: UN LUNGO TRIBUTO A CHADWICK BOSEMAN

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Black Panther: Wakanda Forever è un film del 2022 diretto da e co-scritto da Ryan Coogler. Il film è il sequel di Black Panther del 2018, che perde il suo protagonista Chadwick Boseman.

Questa pellicola è un lungo e grande tributo al compianto attore, un elogio di grande rispetto e con ritmi decisamente lenti dai toni tristi. Un lungo film che difficilmente riesce ad uscire da questo alone di tristezza e che spesso dopo qualche scena di azione torna nel rispetto del silenzio e dei discorsi che riguardano spesso il passato. La ferita lasciata dalla perdita dell’attore Chadwick Boseman è davvero grande e la si percepisce fin troppo per tutto il film.

I ritmi sono davvero fin troppo lenti e che spengono totalmente il film a tratti rendendolo davvero molto noioso e sembra non convincere mai del tutto. Gli scontri hanno la loro solita spettacolarità, ma anche qui la totale assenza di veri supereroi non convince del tutto. Un lungo funerale di più di due ore che stanza e annoia, ma che emotivamente ha decisamente il suo effetto. Una malinconia e un’angoscia ben trasmessa attraverso lo schermo.

Difficile mixare un mondo leggero come quello marvel con il difficile concetto di morte, di irrimediabile e irreversibile, un mondo fatto di immortali e in cui in generale la morte sembra un elemento lontano. Qui è presente e in parte l’obiettivo di questa pellicola è stato raggiunto, film visivamente spettacolare, con una cadenza di rispetto verso l’attore deceduto.

Come il primo, il mondo di Black Panther si divide un po’ dal resto dell’universo cinematografico della Marvel, con un film decisamente più impegnato e dai toni più seri e complessi. La colonna sonora curata da Ludwig Goransson è davvero bellissima, un vestito perfetto di questo film, che visivamente non tradisce le aspettative e che anzi riesce a stupire con fotografie acquatiche inaspettate.

Nel complesso rimane un ottimo tributo, ma allo stesso un film che arranca, che spesso annoia e che forse dura un po’ troppo. Visivamente come sempre bello, con una trama che comunque funziona anche se con qualche difetto.

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THE MIDNIGHT CLUB: UNA SERIE HORROR LEGGERA, TRA AMICIZIA E IL CONFRONTO CON LA MORTE

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The Midnight Club è una serie Creata da Mike Flanagan e Leah Fong, basata sull’omonimo romanzo di Christopher Pike. Una serie dai toni horror e thriller che affronta in modo diverso dal solito, un tema tanto complicato e pauroso come la morte.

Dei malati terminali che risiedono in una specie di ospizio specializzato in malattie terminali, si ritrovano tutte le sere a mezzanotte nella sala della biblioteca per raccontarsi storie di orrore e esorcizzare la morte. Spero che qualcuno dall’altra parte li possa aiutare e a fargli sapere che la morte non è poi così spaventosa. Sono tutti dei ragazzi la cui vita si sta interrompendo troppo presto. Un mix tra profondità emotiva e scene abbastanza paurose e improvvise in cui il punto focale e il confronto con la morte e gli ultimi istanti di vita.

The Midnight Club mette il mistero e l’horror insieme e lo fa facendo dei riferimenti alla magia nera e a strani rituali che permettono alle persone di guarire magicamente, i protagonisti interagiscono tra le storie che racconto e i fatti ambigui che succedono in quella tenuta.

La serie tratta con molta delicatezza, la morte, la malattia, con molto rispetto e lo fa mostrandoci il lato bello dell’amicizia e dello stare insieme raccontandosi storie sorseggiando del vino. Anche alla fine della vita di può trovare dei momenti in cui non si è soli, in cui ci si sente ancora vivi. Una trama con alti e bassi e con episodi coinvolgenti e altri che non portano praticamente a nulla, la recitazione a volte arranca un po’ ma nel complesso non è male. La paura c’è più nei primi episodi, poi ci si abitua e la situazione diventa più thriller e mistero. Il formato è carino, con le storie riprodotte in ogni episodio, tipo “piccoli brividi”, ma allo stesso tempo ci allontanano un po’ dalla trama principale, creando a volte un po’ di confusione.

Il finale rimane aperto, pronto per una nuova stagione, ma non è clamoroso e molto coinvolgente, c’è un particolare colpo di scena, ma nulla di troppo eclatante e che crei poi così tanta curiosità, è un po’ il difetto della serie, che non riesce del tutto a catturare lo spettatore che si “sveglia” solo quando c’è uno spavento improvviso e a volte forse troppo annunciato o forzato.

Nel complesso una buona serie, ma che rimane nel limbo di Netflix come tante, ottimi i dialoghi e gli argomenti, magistralmente scritti, come sempre, da Flanagan. Una serie un po’ per tutti, piacevole con la giusta dose di leggerezza e paura.

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THE SANDMAN: RECENSIONE PRIMA STAGIONE

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The Sandman è una serie Netflix Creata da Neil Gaiman, David S. Goyer, Allan Heinberg, Basato sull’omonimo fumetto della DC Comics.

Questa è una di quelle serie tv che doveva uscire da anni ma non ha mai trovato spazio produttivo, nessuno che ne avesse il coraggio, ci sono già stati degli spin-off di questo universo narrativo, come il film Costatine, oppure la serie Lucifer. The Sandman parla di un mondo dove l’astratto diventa concreto e reale, un universo dove gli eterni sono le nostre credenze e in nostri miti. Così veniamo traspostati nel mondo di Morfeo il protettore del reame dei sogni, interpretato da un bravissimo Tom Sturridge. La trama della serie è come se fosse spezzettata in piccole storie che hanno come solo filo conduttore le avventure di Morfeo che si muove tra il mondo dei vivi e quello dei sogni. La storia parte con lui che viene imprigionato per 100 anni, e al suo ritorno nel reame nulla è più come prima e deve sistemare alcune cose. Deve anche recuperare alcuni amuleti che gli servono per il suo lavoro.

The Sandman ha dei ritmi lenti ma adeguati a tutta la situazione, la parlata di Morfeo è precisa, scandita e con un linguaggio forbito e colto. Non ha mai fretta, tanto da apparire distratto e ancora un po’ ingenuo, nonostante la sua vita eterna. Episodio dopo episodio c’è un’evoluzione del personaggio che ondeggia tra l’empatia e l’apatia più totale. All’interno del film ci sono concetti molto profondi, in un episodio c’è un confronto diretto con una della sua famiglia, sua sorella Morte (Kirby Howell-Baptiste). C’è un’ottima profondità, una delicatezza a raccontare un argomento molto tosto e fragile. Anche l’amicizia è ben risaltata in alcuni frangenti della serie.

Questa è un’ottima serie, visivamente una delle più belle di Netflix, e con una trama che convince dell’inizio alla fine, a parte qualche scelta un po’ inutile, in perfetto stile della piattaforma. Una serie molto dinamica con molti personaggi e interazioni, anche se con poca azione ti tiene facilmente incollato allo schermo. Ho visto modernità nel cast e in certe scene, ma di per sé, mi ha ricordato una serie con ritmi anni 90, più precisa e delicata in alcuni frangenti, poco rumorosa e sempre in movimento.

Ovviamente ci sarà sempre un blocco accanito di fan pronti a criticarla, però penso che sia davvero bella come serie tv, coinvolgente al punto giusto, piacevole da guardare e con personaggi che facilmente ti conquistano. Se devo fare un appunto sul cast, non mi è piaciuta la scelta di Lucifer. Volevo Tom Ellis, già protagonista della serie, invece hanno scelto Gwendoline Christie (Brienne del Trono di spade). Sono scelte forzate, che tolgono il clamore e la forza di alcune scene. Un altro difetto è che nel complesso Morfeo appare un po’ troppo stupido e perso, non dà mai la sensazione dei suoi veri poteri. Bello il finale che prospetta una seconda stagione davvero molto interessante.

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FINO ALL’ULTIMO INDIZIO: LE PICCOLE COSE FANNO LA DIFFERENZA

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Fino All’ultimo Indizio è un film del 2021 scritto e diretto da John Lee Hancock. Il film si presente come un classico giallo/thriller dai toni molti anni novanta, sia nella collocazione temporale che nello stile di narrativa e regia.

Il cast principale è formato da tre premi oscar Denzel Washington, Rami Malek e Jared Leto. Personaggi contrapposti ma allo stesso tempo molto simili. Il film gioca molto su questo fattore e sulla sottile differenza tra bene e male. Una scelta un dettaglio, fanno di una decisione, una decisone giusta e buona o una decisone sbagliata e maligna.

Una trama di confronto, tra personaggi e caratteristiche, Un serial Killer e due detective ossessionati dal caso per motivi differenti, un uomo già a pezzi e distrutto da un caso passato Joe Deacon (Denzel Washington) e un altro detective in erba, che non fallisce mai e che nulla gli sfugge (Rami Malek), poi c’è la follia, il caos e il controllo, la parte cattiva e cinica rappresentata da Albert Sparma (Jared Leto) il possibile assassino.

La trama non è semplice e si complica soprattutto nel finale, alcune scene hanno bisogno di molta attenzione di essere capite e alcune scelte vanno analizzate nel profondo, questo riesce a coinvolgere lo spettatore ma anche a confonderlo e forse allontanarlo un po’ dall’empatia che prova verso i personaggi. Ognuno ha una caratteristica ben precisa, ma sembra che il destino sia segnato per tutti, solo un personaggio di può salvare dall’agonia dei sensi di colpa. Si percepisce il tormento e la voglia di risolvere il caso dei protagonisti, in una storia che mentre va avanti diventa più densa e profonda e mette in difficoltà la moralità dei due detective.

A tratti può risultare un po’ lento e complicato, ma nel complesso è un film che sa coinvolgere e farti porre determinate domande in perfetto stile giallo/thriller. Bella la regia, pulita senza troppe complicazioni e uno stile un po’ anni novanta presente in tutto il film. La scrittura dei personaggi è ottima anche se a tratti risulta forse troppo profonda e complessa da capire. Il finale è ottimo, lascia scelta allo spettatore e ci lascia una sensazione di sollievo, di completezza, ma allo stesso tempo la sensazione di non avere tutte le certezze e le risposte. Un finale che ha la capacità di empatizzare al massimo con i due detective protagonisti.

Nel complesso un film piacevole soprattutto per gli amanti del genere. Un film che però non convince del tutto e che è difficile pensarlo come un film a cui dare massimi voti, ha dei difetti che lo appiattiscono un po’ e lo rendono un po’ forse troppo mediocre.