Recensione nel tempo di un caffè
Pain Hustler – il business del dolore è un film tratto da una storia vera, distribuito da Netflix e diretto da David Yates. Un regista molto noto dagli amanti del mondo cinematografico di Harry Potter. Qui fa qualcosa di completamente diverso e ci mostra una storia che prende spunto da fatti realmente accaduti qualche anno fa negli Stati Uniti, una piccola parte dello scandolo degli oppiacei.

Questo film prende solo spunto da un articolo rilasciato dal New york Times qualche anno fa che riguardava lo scandalo dell’azienda farmaceutica Insys che nel 2011 aveva iniziato a corrempere dei dottori per vendere il proprio farmaco a base di Fentanyl anche a pazienti senza patologie oncologiche e in fin di vita. Per capire a fondo Pain hustler bisognerebbe prima capire il sistema sanitario americano e lo scandalo degli oppiacei che anche tutt’ora sta avendo delle gravvissime conseguenze.
La trama del film, molto più sceneggiata della storia vera, ci aiuta però a capirna la superficie, concentrando la storia su un personaggio immaginario, Liza Drake (Emily Blunt), che da semplice ballerina di Lap Dance diventa una delle migliori venditrici dell’azienda Zanna Farmaceutica (nella realtà Insys). I nomi del farmaco e dei personaggi vengono modificati, ma la storia viene comunque raccontata bene, aggiungendo una sorta di forse empatia e giustificazione per la protagonista.
Questa non è una tematica leggera, ma molto pesante che rimane comunque una storia prettamente americana per alcune sue dinamiche ed evoluzioni, ma che potrebbe colpire un po’ tutti. Yates allegerisce il tutto, mettendoci un po’ dentro di semplice ironia, con personaggi ambigui e grotteschi, mantenendo una recitazione di ottimo livello. Quela che sembra una storia di successo e ambizione della giovane mamma Liza Drake, diventa ben presto una storia di truffa, corruzione e morte.
Il farmaco prescritto, essendo a base di Fentanyl crea una grossa dipendenza se non prescritto nel modo corretto e la fame di potere e soldi ha fatto si che venisse prescritto con troppa legerezza creando dei danni enormi alle persone e tutt’ora alla società americana.
Anche se dai toni leggeri, Pain Hustler riesce a mostrarci il dolore, a empatizzare quasi con il “cattivo”. Il tema del dolore e centrale e ci viene mostrato in diverse sfumature, anche il concetto di amore materno viene sottolineato più volte, diventando di fatto il sentimento più importante del film. La scleta del falso documentario con scene di interviste mantenute in bianco e nero, ci fa capire che tutto è ormai già accaduto e non si può più tornare indietro.
In una delle finte ma realistiche interviste, l’effetto del fentanyl viene paragonato all’abbraccio materno quando si è bambini. Una frase incisiva tagliente che spezza all’improvviso la leggerezza del film. Padri di famiglia che vengono divorati dalla dipendenza, una svolta che ribalta la sensazione di gioia e successo in un incubo di cui la protagonista vuole prendersi tutta la responsabilità.
A parte Pete Brenner (Chris Evans), ogni personaggio sembra giustificato per ciò che sta facendo, il dolore e il lutto fanno parte un po’ di tutti. La follia dell’investitore dell’azienda Jack Neel (Andy Garcia) è quasi giustificata dal suo lutto, della moglie morta di cancro. Pain Hustler avvicina il dolore all’amore, con una linea sottile che si confonde. Un film che per capirlo davvero a fondo va studiata bene tutta la storia vera che c’è dietro, ma che essendo ben fatto, ci da comunque l’idea di cosa sia successo e di cosa stia accandendo. Un ottimo film, dalle diverse sfumature, tutte ben gestite dal suo regista, un ottimo prodotto nel catalogo Netflix.


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